ECCO COME I BOSS DIVENTANO PADRONI DELL’EMILIA


Un bell’articolo di Fabio Manenti appare oggi sul giornale on line Parmanews24 e che narra l’insediamento ultradecennale della criminalità organizzata in Emilia e come essa venga sempre negata dalle istituzioni. L’articolo lo trovate sotto per esteso e qui http://www.parmanews24.com/pblock/terre-verdiane-terre-di-mafia-ecco-come-i-boss-diventano-padroni-dellemilia/

Ci fu un ‘eroe’ cattivo nell’Italia degli anni ’90, uno di quei personaggi sgradevoli ma non sgraditi, che cambiò la storia del nostro Paese. Tommaso Buscetta, capomafia palermitano e più importante tra i grandi pentiti, fu colui che riuscì a far crollare – in parte – la cupola di Cosa Nostra. Quell’uomo, col suo stile a suo modo raffinato,  non esitò a spingere un altro membro di ‘Cosa Nostra’ a parlare, Totuccio Contorno, l’uomo che con le rivelazioni dell’inchiesta Pizza Connection mostrò il traffico di eroina mondiale tra Sicilia e Stati Uniti: “La mafia va cercata in Emilia Romagna, non a Palermo”, disse in commissione parlamentare antimafia. Una testimonianza che cadde nel dimenticatoio, forse perché scomoda, perché ampliava un fenomeno che già era difficile contenere in una sola regione.

Emilia Romagna, terra di mafia. Sembra l’argomento del momento, ma è una storia che va avanti da tempo, documentata da almeno vent’anni.  Un allegato ad un documento della DIA, l’Agenzia  investigativa antimafia, nel lontano 1995 informava i Comuni dell’Emilia Romagna che sul suolo regionale erano insediati stabilmente più di 2000 tra boss e affiliati. A rivelarlo è lo studio “Tra la via Emilia e il clan” di Antonio Amorosi e Christian Abbondanza. L’infiltrazione sarebbe così radicata da formare una sorta di enorme formicaio, con mafiosi-formica che si mescolavano tra la gente comune ignara di tutto. Formiche rosse tra formiche nere, perché i criminali, di diverso, hanno la testa, il modo di pensare.

PIONIERI ALLA RICERCA DELL’ORO – Più che formiche, quei mafiosi erano tarli, venuti chissà quanto tempo prima a scavare il solido legno dell’Emilia Romagna dall’interno, a deporre uova e a farlo marcire, ben attenti a lasciarne intatta la superficie. Per gli emiliani Cosa Nostra era ‘Cosa Vostra’, un fenomeno confinato al Meridione, lontano come il far west. Diversi i cappelli, ma uguali le pistole. Alcuni dei meridionali venuti al Nord – non scordiamo mai che la gran parte era brava gente venuta per lavorare –  non erano cowboy ma pionieri, colonizzatori di nuovi mondi dove impiantare vecchi sistemi.

Nacque il ‘Sistema emiliano‘, che è cosa ben diversa dal modello emiliano, come spiega Antonio Amorosi, ex-salernitano ed ex-assessore a Bologna, oggi giornalista affabile e disponibile: “Il sistema emiliano ha un’accezione negativa rispetto al “modello” di efficienza emiliano. Il sistema è corrotto, marcio; è l’applicazione del ‘rito emiliano’”.

Con ‘rito’ si indica una prassi collaudata di corruzione, mentre occorre specificare “emiliano” perché di altri riti possibili, per intaccare una società sana, ce ne sono due: il ‘rito ambrosiano’, fatto di bustarelle tra imprenditori subdoli e amministratori compiacenti, e il ‘rito mafioso’ in cui l’imprenditore è anche criminale, e usa violenza e  minaccia per ottenere dalla politica ciò che vuole.  Il ‘rito emiliano’, invece, vede una fusione totale tra, imprenditoria, amministrazione e politica, che spesso vengono a coincidere in un’unica, tortuosa carriera, in cui trova terreno fertile l’infiltrazione mafiosa. E’ un terreno in cui c’è il monopolio politico di chi vince appalti e governa le amministrazioni pubbliche: si nasce politici e poi si diventa amministratori; una volta tali ci si trasforma in imprenditori-cooperatori. Finito il mandato, si riprende il ciclo. In questo sistema chiuso tra gli anni 70-80 si innestò la criminalità organizzata, capace di guadagnarsi un pezzo del monopolio del movimento terre, delle costruzioni e acquistando imprese pulite. E così il malavitoso diventò colletto bianco svolgendo tutti i ruoli, gestendo favori, pulendo denaro, partecipando al cambio delle norme.

Dei tre riti è quello più efficace, perché rende difficoltosa e quasi impossibile ogni indagine, in un intreccio di nomi, somme e documenti, legittimi e non, che nemmeno gli sceneggiatori dell’interminabile Beautiful ci capirebbero qualcosa. Dei tre riti è chiamato ‘emiliano’, non certo senza un perché, visto che il Sole 24 Ore segnala che ben il 61% degli appalti pubblici del capoluogo di  Regione, Bologna, avviene per assegnazione diretta, senza alcuna gara.

LA BILIOTECA DEI RIFIUTI TOSSICI – Biblioteca Casa della Conoscenza di Casalecchio di Reno, Bologna. Qui Carlo Lucarelli, lo scrittore, tiene incontri culturali parlando di lotta alla criminalità. Un fiore all’occhiello, un vanto costruito dalla ditta calabrese Ciampà.

Ciò che puzza – e come potrebbe essere diversamente – è che l’azienda di costruzioni, con un certificato antimafia che va e che viene, non potrebbe partecipare ad appalti perché coinvolta nell’inchiesta ‘Black Mountain’.  Puzza perché l’indagine della magistratura, che non è proprio un’inchiestina, accusa la società calabrese di aver miscelato a materiali da costruzione ben 350mila tonnellate di rifiuti tossici. Amorosi questi fatti li conosce bene e li denuncia da quando, assessore alla Casa e alle politiche abitative del Comune di Bologna per i Verdi, non inciampò in strani silenzi.

La ristrutturazione avviata nel 2003 per un complesso di case popolari, pagata ben 6.000.000 di euro da chi mi aveva preceduto in Giunta, aveva dei significativi rallentamenti. Iniziai ad indagare ma nessuno voleva darmi delle risposte, c’era una strana omertà, erano tutti fuorvianti. Venni a scoprire che la ditta responsabile dei lavori era Enea, controllata da Pietro Nucera, cassiere del clan dei Nuvoletta, e che era stata posta sotto sequestro dal Tribunale di Napoli. Ma nessuno voleva dirlo, nessuno voleva toccare l’argomento”.

Ma i casi di appalti poco trasparenti sono moltissimi, “basti pensare che a Bologna la firma al progetto della ristrutturazione di Piazza Maggiore e i lavori alla Pinacoteca delle Belle Arti sono opera della ICLA di Napoli, società controllata dai clan Alfieri e Nuvoletta”.

COMBATTERE I TARLI CON L’ANTIPOLVERE – Antonio di esempi potrebbe farne a centinaia, tutti raccolti nel suo blog e tutti denunciati. Per certi fatti ha un fiuto particolare, un olfatto meridionale frutto dell’adolescenza passata tra Salerno, trapiantato a 14 anni a Bologna nell’ area Pilastro-San Donato, in cui i compagni di scuola si facevano di eroina e ai piani alti dei palazzi si scontavano i domiciliari, dove tutti sapevano ma nessuno ammetteva. Ma se al meridione la criminalità ha il controllo militare e la gente non parla per paura, in Emilia Romagna e in tutto il Nord a volte non si parla per uno stupido orgoglio. Troppo spesso gli emiliani hanno nascosto dietro al sorriso del benessere una realtà diversa; e la loro regione è diventata un mobile antico, lucidato fuori ma corroso dentro. I tarli, sempre loro, che però non vanno via con l’antipolvere ma con forti e puzzolenti insetticidi. Ma chi vuole un mobile che puzza?

Di certo non lo vogliono a Sant’Agata bolognese, paesino tra Modena e Bologna. Il 30 agosto 2009, Giorgio Simonetti, allora di 22 anni, affiliato al clan dei Casalesi, venne arrestato dai carabinieri per aver colpito più volte, con estrema violenza e senza alcun motivo, un uomo senegalese all’interno di un bar. Un fatto insolito, come insolita è stata la reazione di una trentina tra i parenti e gli amici del ragazzo, che hanno assaltato la caserma. Scene già viste in alcuni paesi della Campania, ma non certo in un piccolo paesino del bolognese. La prova di un atteggiamento cambiato, di nuovi rapporti nella società.

Non certo una bella pubblicità per Sant’Agata Bolognese, i cui dirigenti, più che chiedersi quali cambiamenti sociali stavano investendo il loro bel paese, hanno lanciato una campagna promozionale per rilanciarne l’immagine. Nemmeno si fosse intaccato il turismo di una nuova Parigi.

NON CI SI BAGNA SE PIOVE DENARO – Ma il silenzio che da decenni accompagna il fenomeno grave e subdolo delle infiltrazioni mafiose, a lungo è stato taciuto per interesse, non solo per esigenze di buona pubblicità. Se un tempo erano le rimesse dei napoletani, dei siciliani, dei calabresi emigrati al Settentrione a muovere flussi di denaro da Nord a Sud, da tempo ormai il processo è inverso: sono imponenti i fiumi di denaro, che, risalendo lo stivale e straripando oltre i margini della legalità, confluiscono in Emilia, Piemonte e Lombardia. Soldi macchiati di sangue e di droga, estorti con la violenza ai commercianti meridionali, che al Nord vengono ripuliti senza fare troppe domande. Se piove denaro, state pur certi che nessuno se ne lamenterà.

La mafia è un problema più dell’Emilia e del Nord che del Sud – spiega ancora Amorosi – perché è qui che avvengono i grossi movimenti, qui che i risultati restano nel tempo, legati al territorio, alle persone”.

2commenti
  1. Sofia Melli

    14 febbraio 2012 at 16:10

    Bellissimo articolo, complimenti.

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  2. Sergio Palmieri

    15 febbraio 2012 at 12:23

    Articolo molto interessante che, almeno per quanto mi riguarda, appare anche, purtroppo, molto verosimile. Mi richiama alla mente vecchie vicende di grandi appalti sul territorio bolognese per i quali si parlò di timori di infiltrazioni mafiose. Mi riferisco per esempio a quello per la realizzazione del nuovo scalo aeroportuale (siamo nei lontani anni ’80). Il dubbio affiorò ma, evidentemente, rimase senza risposte concrete. Ma già da quegli anni il dubbio che società ed imprese con legami in qualche modo riconducibili a organizzazioni mafiose si stessero affacciando con investimenti e/o acquisizioni sul nostro territorio, era più volte affiorato. Oggi, questo pezzo di Fabio Manenti suona come una conferma. La conferma di un percorso di radicamento mafioso che viene da lontano. Ma che è stato per troppo tempo ignorato e/o sottovalutato praticamente da tutti. O comunque da troppi! E oggi il problema veramente serio è che la parte più importante di questa presenza mafiosa, nella nostra regione, si manifesta con una “facciata di legalità” che la rende indistinguibile dalle altre normali e pulitissime attività finanziarie, imprenditoriali, commerciali, ecc.. che vi si svolgono. L’altro problema, invece, è di ordine culturale. La consapevolezza di questa presenza non è affatto diffusa e, aldilà delle affermazioni altisonanti di molti politici, in proposito, gli anticorpi politico-istituzionali e sociali di contrasto a questi fenomeni -proprio perchè scarsamente conosciuti- sono ancora troppo bassi!

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