di Antonio Amorosi in prima pagina e a pag 15 de La Verità del 20 gennaio 2017
L’ex giudice De Grazia: “I clan fanno propaganda elettorale. Ho scritto una legge che può fermarli. Saviano è solo show, piuttosto si candidi a sindaco di Corleone»
«La mafia va affrontata in trincea» dice. Ma non gli perdonano che ancora a ottant’anni, e a sue spese, vada a sfidare il malaffare nei comuni sciolti per criminalità organizzata. E’ la storia di un ex giudice della Cassazione, Romano De Grazia che si aggira per l’Italia infuriato come un rinoceronte. Potrebbe passare il tempo a raccontare aneddoti ai nipoti o godersi i tanti premi ricevuti e invece… . Non importa cosa stiano facendo le tante star dell’antimafia. Se litigano o meno fra loro, come De Magistris e Saviano. La sua priorità è stroncare lo scambio politica-clan, con questi ultimi che si prestano a rifornire di voti i candidati in cambio di favori. E per questo da anni si batte per far approvare una legge, la Lazzati, che vieta ai sorvegliati speciali per mafia di svolgere l’attività di propaganda elettorale.
Lo incontriamo per la prima volta a Lamezia Terme. Strade che profumano di muschio tra ulivi cresciuti sul lungomare, curvi come tanti anziani piegati dalla prepotenza del vento.
Colto, cattolico, ha un’energia travolgente. Fa battute in calabrese, le mischia a interi brani del codice di procedura penale ripetuti a memoria o a dotte citazioni latine: «La giustizia è una spada di Damocle, ferisce anche chi la impugna. Ho conosciuto magistrati integerrimi ma anche quelli che dopo un vizio esaudito, belle donne, gioco d’azzardo, cavalli, erano molto benevolenti. Siamo uomini come tutti gli altri», sorride amaro.
La legge Lazzati, dedicata all’omonimo costituente Giuseppe Lazzati, vieta la propaganda elettorale a chi è collegato ai clan ed ha gravi indizi di affiliazione, anche se ha già pagato una pena. Divieto che dovrebbe essere un principio elementare, penseranno i più. E invece no. I mafiosi possono finanziare candidati o sovvenzionare liste. Il secondo governo Berlusconi aveva provato ad approvarla ma per un emendamento dell’attuale ministro agli Affari regionali, Enrico Costa, la legge contiene un errore: agli affiliati è solo vietano affiggere manifesti e distribuire santini elettorali. «Ridicolo! Come se facessero questo» brontola De Grazia. Forse sta tutto qui il segreto dello scambio politico mafioso nostrano. Nessuno si occupa di far passare un principio elementare e allora nell’indifferenza dei media De Grazia gira l’Italia per «costruire un moto di ribellione contro questo scempio».
L’incarico in Cassazione se l’era conquistato sul campo. Determinanti furono i processi degli anni Novanta al «verminaio di Messina», come chiamarono le zone grigie tra alta borghesia, mafia e giustizia siciliana. «Nessuno voleva farli e venivano tutti assegnati a me. Finivo le udienze e un po’ camuffato me ne tornavo a casa a piedi nel quartiere malfamato dove abitava mia figlia Rosangela. Quando gli agenti si accorsero che non avevo la scorta restarono pietrificati. Ma io risposi “Tranquilli, quelli sparano ad altezza uomo. Io sono alto un metro e cinquantotto”».
Il battesimo di fuoco della Lazzati è arrivato nel 1993, ai piedi dell’Aspromonte, nel Comune di San Luca. In piena faida di ‘ndrangheta presenta la legge con moglie e figlia, presenti alti ufficiali e istituzioni, ma un uomo prende la parola con aria di sfida. «Sono Francesco…, il capo della malavita locale», dice, «cosa è venuto a fare qui? Le consiglio di andare a chiedere la grazia alla Madonna di Polsi … egregio giudice De Grazia». E’ una minaccia e una presa in giro. Il gelo cala in sala tra i volti pallidi dei carabinieri. Replica il giudice: «Egregio capo della malavita locale, visto che lei si è qualificato con questo titolo professionale, sono venuto qui con famiglia e amici per portare la solidarietà ai tanti cittadini onesti di San Luca lasciati soli, vittime di quattro cialtroni come lei». Panico. «Ma i carabinieri ripresero colore», racconta De Grazia divertito. «Il malavitoso si scusò e voleva invitarmi al bar. “Ma io al bar con lei non ci verrò mai”, risposi».
Altro esempio. A Catanzaro faceva il pretore con pochi mezzi. «Il capo della Procura si chiamava Cinque, di cognome, ed era molto timoroso sul da farsi. “Lei è Cinque, più uno, che sono io, sei, abbiamo la sufficienza, possiamo procedere!”» E così lo convinse.
Oggi De Grazia cammina se lo si aiuta, ci vede anche poco, proprio come i rinoceronti, e di recente si è preso una brutta broncopolmonite. «I futuri italiani fra cent’anni che penseranno guardando al nostro tempo? Che eravamo tutti collusi con la mafia!? Ho ottant’anni. Non ne ho altri venti per fare approvare la Lazzati».
Oltre a tutto l’arco parlamentare ha chiesto la collaborazione di Libera per farla approvare, ma l’associazione ha fatto spallucce. Qualche mese fa doveva presentarla al Comune di Milano. «Ma l’allora sindaco Pisapia non l’ha permesso. Ma ci tornerò a Mlano», dice, ironizzando sul suo stesso accento calabrese che mozza e aspira un pezzo di Madonnina. Prende fiato: «Certo, se per una remota eventualità risolvessimo il problema delle mafie si toglierebbe la biada al cavallo. Libera invece di fare l’antimafia che farebbe?» Si infuoca ogni volta ne senta parlare: «Ho passato i migliori anni della mia vita a combattere la mafia. Ma l’antimafia è fatta da personaggi di plastica. I blablabla televisivi non servono a niente. Sono abbagliati dal loro narcisismo. I Saviano, i Don Ciotti, i De Magistris… dovrebbero combattere loro per una legge del genere, non io che presto incontrerò il Signore, sperando mi assegni un girone poco infernale. Ma loro amano i palcoscenici». E ancora: «Ho invitato tutti i cosiddetti leader a candidarsi sindaco a Casal di Principe, Corleone, Limbadi, Platì, Comuni di trincea in cui bisogna stare di fianco ai cittadini per bene, ma niente».
L’ex giudice è odiatissimo dai soloni di sinistra che pontificano di giurisprudenza dai salotti televisivi ma stimato, proprio per aver scritto la Lazzati, dai compianti fuoriclasse del diritto penale Federico Stella, Vittorio Grevi, o dall’ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Ruperto e dal capo della Procura nazionale antimafia Franco Roberti. La ‘ndrangheta di Lamezia Terme sotto casa, i processi di mafia o un tragico doppio lutto familiare, la morte improvvisa della figlia Rosangela e di un nipote, che gli hanno fatto decidere di mollare la Cassazione nel 2007. Ma il male con un uomo del genere non può vincere.
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